la nostalgia della condizione sconosciuta
-Nostalgia for an Unfamiliar State of Being-
a documentary film by Andrea Grasselli
Cosa succede quando il cantautore protagonista del documentario
recita la parte di se stesso, ci catapulta in claustrofobici
giochi di specchi esistenziali ed esplora le
divergenze tra ruolo sociale e
ruolo drammaturgico?
recita la parte di se stesso, ci catapulta in claustrofobici
giochi di specchi esistenziali ed esplora le
divergenze tra ruolo sociale e
ruolo drammaturgico?
What happens when the protagonistof a documentary plays the
part of himself, exploring ambiguous concepts of reality?
Ettore drags us into a claustrophobic game of
existential mirrors, questioning the boundaries
between reality and staging.
part of himself, exploring ambiguous concepts of reality?
Ettore drags us into a claustrophobic game of
existential mirrors, questioning the boundaries
between reality and staging.
Liberamente ispirato dal saggio La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, il documentario si muove esplorando la liminare divergenza tra ruolo sociale e ruolo drammaturgico. Attraverso l’esperienza di Ettore, cantautore e protagonista del film, si vuole scandagliare il bisogno di rappresentare qualcosa che ci manca e che non possiamo vivere, e l’impossibilità di arrestare questo bisogno.
Inspired by the essay The Presentation of Self in Everyday Life by sociologist Erving Goffman, the documentary explores the threshold between social and dramaturgical roles.
The need to represent what we are missing, what we cannot experience, and the impossibility of stopping this need is examined through the struggle of Ettore, singer-songwriter and protagonist of the documentary.
The need to represent what we are missing, what we cannot experience, and the impossibility of stopping this need is examined through the struggle of Ettore, singer-songwriter and protagonist of the documentary.
SINOSSI
Ettore è un cantautore fuori dagli schemi classici: i suoi testi e le sue ballate sono impregnate di un misto di quotidiana ritualità e di leggerezza surreale.
Il documentario si muove mostrando la crisi dell’uomo-artista nel momento cruciale della sua vita; il film racconta, infatti, il momento di svolta del musicista: la sua decisione di abbandonare il palcoscenico e di non suonare più in pubblico. Questo rifiuto di suonare in pubblico, non significa però un allontanamento dalla musica o dalla forma espressiva, ma consiste in una presa di posizione personale per riflettere sulle sue modalità espressive. Il film indaga questi momenti di intimità e di ricerca nel quotidiano dell’artista, e cerca, discretamente, di osservare, per mostrare che cosa vuol dire dare un nuovo senso alla propria esistenza.
Il documentario, nel suo incipit, mostra tutti i piani della rappresentazione che verranno in seguito ripresi, approfonditi e collocati in un quadro più ampio; in seguito dichiara l’interrogativo cardine del film, direttamente attraverso le parole di Ettore: «il mio ruolo? è interpretare al meglio me stesso; senza recitare, però». Attorno a questa domanda e alle sue molteplici risposte si sviluppa il documentario, e come un vortice cattura lo spettatore dentro di sé mostrando tutti i corto circuiti emotivi ed esistenziali.
Dopo una prima parte apparentemente lineare e introduttiva, si intuisce subito che sotto alla superficie delle semplici immagini di attività quotidiane, comincia ad infiltrarsi un’ossessione continua che cresce fino ad esplodere.
Ricercare la nostra personale identità per noi stessi e la stessa nostra identità per gli altri soggetti che gravitano attorno a noi. Esplorare chi siamo, ma soprattutto come ci rappresentiamo e perché abbiamo bisogno di creare per noi e per gli altri, una rappresentazione di noi stessi. I due poli della rappresentazione: da un punto di vista interno, la costruzione per noi stessi di un’identità personale; da un punto di vista esterno, la costruzione, per chi è attorno a noi, di un personaggio. Questo dualismo, tra personaggio privato e personaggio pubblico, inizia a sovrapporsi quando colui che è guardato è anche colui che guarda; si crea così un corto circuito in cui l’occhio che guarda modifica ciò che è guardato. A quel punto il ruolo sociale della persona, se inserito in un contesto narrativo, diventa anche ruolo drammaturgico.
Il racconto del film fluttua sulla ricerca esistenziale sull’uomo, sulle sue esigenze, i suoi bisogni, le sue pulsioni, le sue paure, i timori, sull’identità, sulla rappresentazione. Sono quindi queste tematiche che costringono il documentario ad interrogarsi sulla propria funzione e sulla propria espressività. La conseguenza è la forma cangiante. Il documentario fin a quel punto osservativo, diventa partecipativo, acquistando nuove forme espressive: l’auto-ripresa che riflette l’auto-analisi e l’auto-espressione dell’artista; tratti surreali nel quotidiano, come nelle parole dei brani scritti del cantautore; la messa in scena per mostrare gli stati emotivi più profondi.
La ricerca dell’uomo-Ettore, nella sua tragedia e comicità, è un lungo percorso di liberazione e accrescimento. La strada verso la condizione sconosciuta è lunga e tortuosa; e grazie alla sensazione nostalgica, fallace e potente, porta a desiderare una condizione esperienziale lontana e immateriale, che probabilmente soltanto con le emozioni più profonde si può tentare di interpretare e raggiungere.
Dal dualismo iniziale ben delineato da Ettore stesso, tra persona e personaggio, nel corso della narrazione questa linea di divisione si assottiglia sempre di più, fino ad arrivare ad un momento di crisi e di rottura totale. A questa fase di perdizione completa, delle centomila possibilità interpretative delle propria esistenza, ne segue un momento di rinascita, di cambio pelle, in cui nuove passioni e nuove espressioni artistiche e creative prendono corpo.
Nel libro La vita quotidiana come rappresentazione il sociologo Erving Gofmann scrive: «Qualunque ne sia l’origine, sembra che gli uomini abbiano bisogno di contatti sociali e di compagnia sotto un duplice profilo; da un lato essi necessitano di un pubblico davanti al quale recitare le proprie vanterie, dall’altro di compagni di équipe con i quali entrare in intrighi segreti e rilassarsi nel retroscena.»
Ettore è un cantautore fuori dagli schemi classici: i suoi testi e le sue ballate sono impregnate di un misto di quotidiana ritualità e di leggerezza surreale.
Il documentario si muove mostrando la crisi dell’uomo-artista nel momento cruciale della sua vita; il film racconta, infatti, il momento di svolta del musicista: la sua decisione di abbandonare il palcoscenico e di non suonare più in pubblico. Questo rifiuto di suonare in pubblico, non significa però un allontanamento dalla musica o dalla forma espressiva, ma consiste in una presa di posizione personale per riflettere sulle sue modalità espressive. Il film indaga questi momenti di intimità e di ricerca nel quotidiano dell’artista, e cerca, discretamente, di osservare, per mostrare che cosa vuol dire dare un nuovo senso alla propria esistenza.
Il documentario, nel suo incipit, mostra tutti i piani della rappresentazione che verranno in seguito ripresi, approfonditi e collocati in un quadro più ampio; in seguito dichiara l’interrogativo cardine del film, direttamente attraverso le parole di Ettore: «il mio ruolo? è interpretare al meglio me stesso; senza recitare, però». Attorno a questa domanda e alle sue molteplici risposte si sviluppa il documentario, e come un vortice cattura lo spettatore dentro di sé mostrando tutti i corto circuiti emotivi ed esistenziali.
Dopo una prima parte apparentemente lineare e introduttiva, si intuisce subito che sotto alla superficie delle semplici immagini di attività quotidiane, comincia ad infiltrarsi un’ossessione continua che cresce fino ad esplodere.
Ricercare la nostra personale identità per noi stessi e la stessa nostra identità per gli altri soggetti che gravitano attorno a noi. Esplorare chi siamo, ma soprattutto come ci rappresentiamo e perché abbiamo bisogno di creare per noi e per gli altri, una rappresentazione di noi stessi. I due poli della rappresentazione: da un punto di vista interno, la costruzione per noi stessi di un’identità personale; da un punto di vista esterno, la costruzione, per chi è attorno a noi, di un personaggio. Questo dualismo, tra personaggio privato e personaggio pubblico, inizia a sovrapporsi quando colui che è guardato è anche colui che guarda; si crea così un corto circuito in cui l’occhio che guarda modifica ciò che è guardato. A quel punto il ruolo sociale della persona, se inserito in un contesto narrativo, diventa anche ruolo drammaturgico.
Il racconto del film fluttua sulla ricerca esistenziale sull’uomo, sulle sue esigenze, i suoi bisogni, le sue pulsioni, le sue paure, i timori, sull’identità, sulla rappresentazione. Sono quindi queste tematiche che costringono il documentario ad interrogarsi sulla propria funzione e sulla propria espressività. La conseguenza è la forma cangiante. Il documentario fin a quel punto osservativo, diventa partecipativo, acquistando nuove forme espressive: l’auto-ripresa che riflette l’auto-analisi e l’auto-espressione dell’artista; tratti surreali nel quotidiano, come nelle parole dei brani scritti del cantautore; la messa in scena per mostrare gli stati emotivi più profondi.
La ricerca dell’uomo-Ettore, nella sua tragedia e comicità, è un lungo percorso di liberazione e accrescimento. La strada verso la condizione sconosciuta è lunga e tortuosa; e grazie alla sensazione nostalgica, fallace e potente, porta a desiderare una condizione esperienziale lontana e immateriale, che probabilmente soltanto con le emozioni più profonde si può tentare di interpretare e raggiungere.
Dal dualismo iniziale ben delineato da Ettore stesso, tra persona e personaggio, nel corso della narrazione questa linea di divisione si assottiglia sempre di più, fino ad arrivare ad un momento di crisi e di rottura totale. A questa fase di perdizione completa, delle centomila possibilità interpretative delle propria esistenza, ne segue un momento di rinascita, di cambio pelle, in cui nuove passioni e nuove espressioni artistiche e creative prendono corpo.
Nel libro La vita quotidiana come rappresentazione il sociologo Erving Gofmann scrive: «Qualunque ne sia l’origine, sembra che gli uomini abbiano bisogno di contatti sociali e di compagnia sotto un duplice profilo; da un lato essi necessitano di un pubblico davanti al quale recitare le proprie vanterie, dall’altro di compagni di équipe con i quali entrare in intrighi segreti e rilassarsi nel retroscena.»
SYNOPSIS
Ettore is a singer that thinks outside the box: his lyrics and ballads are imbued with a mixture of everyday rituals and surreal lightness.
The documentary shows the crisis of a man and the turning point in his life as a musician. He decides to leave the stage and to no longer play publicly. Refusing to play in public, however, doesn’t mean leaving music or artistic expressions, but reflecting on how to do it. The film investigates moments of intimacy and daily life of the artist, and discreetly observes the process a man giving a new meaning to his existence.
The key question of the film, directly through the words of Ettore, is: «What is my role? It’s interpreting myself at my best; without acting, though...». The film develops around this question that gives life to a carrousel of emotional and existential short circuits. Under the surface of simple images of daily activities, a continuous obsession begins to infiltrate and grows until it explodes.
How does a man represents himself? Why does he need to create an image, a representation of himself, for himself or others? There is a duality in the way he does it: he builds an identity for himself and a character for other people to look at. The mingling between private and public begins to overlap when the one who is looked at is also the one who looks; this creates a short circuit in which the onlooker changes the events he is watching. If a real person is inserted in a narrative context, does he play a part?
The story of the film fluctuates on the existential research of a man looking for an identity, with his needs, impulses, fears. The documentary is forced by his questions to question its own function and shape. The film acquires new shapes. Ettore begins filming himself as a metaphor of the auto-analysis he is performing. Surreal traits start popping out in his everyday life, mirroring the lyrics of his songs. Ettore finds a way to express his deepest emotions in creating and staging theatre-like scenes and monologues.
The search for the identity of Ettore is a long journey of liberation and growth that is both a tragedy and a comedy. Ettore desires to reach something that he longs for, even if he doesn’t know what it is. He is looking for an Unfamiliar State of Being and the road to it is long and arduous. He swims deep into his emotions in order to reach and explore that state.
At first, Ettore is aware of the tension between himself and his stage character. In the course of the narration, this line becomes thinner, until it reaches a moment of total rupture. Ettore is lost in a maze were he faces the infinite shapes that his existence may take. His crisis is followed by rebirth, a change of skin, in which he discovers new meanings, new passions and new artistic drive.
In his book The Presentation of Self in Everyday Life, the sociologist Erving Gofmann writes that it seems that men need social relationships under a double profile; on the one hand they need an audience to brag to, on the other hand they need teammates to relax with backstage.
Ettore is a singer that thinks outside the box: his lyrics and ballads are imbued with a mixture of everyday rituals and surreal lightness.
The documentary shows the crisis of a man and the turning point in his life as a musician. He decides to leave the stage and to no longer play publicly. Refusing to play in public, however, doesn’t mean leaving music or artistic expressions, but reflecting on how to do it. The film investigates moments of intimacy and daily life of the artist, and discreetly observes the process a man giving a new meaning to his existence.
The key question of the film, directly through the words of Ettore, is: «What is my role? It’s interpreting myself at my best; without acting, though...». The film develops around this question that gives life to a carrousel of emotional and existential short circuits. Under the surface of simple images of daily activities, a continuous obsession begins to infiltrate and grows until it explodes.
How does a man represents himself? Why does he need to create an image, a representation of himself, for himself or others? There is a duality in the way he does it: he builds an identity for himself and a character for other people to look at. The mingling between private and public begins to overlap when the one who is looked at is also the one who looks; this creates a short circuit in which the onlooker changes the events he is watching. If a real person is inserted in a narrative context, does he play a part?
The story of the film fluctuates on the existential research of a man looking for an identity, with his needs, impulses, fears. The documentary is forced by his questions to question its own function and shape. The film acquires new shapes. Ettore begins filming himself as a metaphor of the auto-analysis he is performing. Surreal traits start popping out in his everyday life, mirroring the lyrics of his songs. Ettore finds a way to express his deepest emotions in creating and staging theatre-like scenes and monologues.
The search for the identity of Ettore is a long journey of liberation and growth that is both a tragedy and a comedy. Ettore desires to reach something that he longs for, even if he doesn’t know what it is. He is looking for an Unfamiliar State of Being and the road to it is long and arduous. He swims deep into his emotions in order to reach and explore that state.
At first, Ettore is aware of the tension between himself and his stage character. In the course of the narration, this line becomes thinner, until it reaches a moment of total rupture. Ettore is lost in a maze were he faces the infinite shapes that his existence may take. His crisis is followed by rebirth, a change of skin, in which he discovers new meanings, new passions and new artistic drive.
In his book The Presentation of Self in Everyday Life, the sociologist Erving Gofmann writes that it seems that men need social relationships under a double profile; on the one hand they need an audience to brag to, on the other hand they need teammates to relax with backstage.
LETTERA D'INTENTI E NOTE DI REGIA
Il documentario l’ho inteso fin da subito come un insieme di frammenti di vita eterogenei e disgiunti. Allontanandomi dalla logica di causa effetto ho voluto costruire la concatenazione dello sviluppo narrativo sulle trasformazioni emotive del protagonista.
Ettore Giuradei, cantautore classe 1981, lo conoscevo da anni.
Prima di iniziare il film avevo letto il libro di Erving Goffman La vita quotidiana come rappresentazione; è un saggio del 1956 definito di pre-sociologia; all’interno del libro come filo conduttore si usa la metafora del teatro per indagare l’importanza dell’azione umana e sociale. Ciò che mi ha colpito durante lettura, è stata la chiara e limpida dimostrazione del fatto che il “nostro” mondo è formato dalla “nostra” rappresentazione di noi stessi e vice versa.
In quel periodo ero alla ricerca di un’originale personalità che volesse giocare con me attraverso un documentario insolito sulla rappresentazione di se stessi, sfidando i paradossi esistenziali e le regole canoniche del documentario classico. Quando ho incontrato nuovamente Ettore sul palco, durante uno dei suoi concerti, ho capito che era lui la persona adatta per questa sfida personale a due; ero attratto dalla sua forza dirompente sul palco e dalla fragilità personale fuori. Volevo ambiziosamente costruire un documentario che attraverso il protagonista mettesse in discussione il documentario stesso, tentando una riflessione sul mezzo e sull’operazione linguistica.
All’epoca non avevo un’idea precisa di come intraprendere questo tortuoso percorso; da un lato mi sembrava di avere già il film in testa, e dall’altro non sapevo come iniziare. Feci quindi la cosa più semplice di fronte ad un musicista: cominciai a seguirlo durante i suoi concerti e i tour, proponendo ad Ettore un documentario su di lui e sulla sua musica. Ettore accettò, più per curiosità che per convinzione; del resto, era proprio questo tipo di complicità che cercavo. Da quel primo incontro nacquero delle riprese dei suoi concerti; successivamente iniziai a seguirlo anche a casa, durante la sua vita quotidiana. Durante quella fase, mentre raccoglievo le prime riprese, cercavo di mettere a fuoco consapevolmente ciò che avevo intravisto in lui e quale fosse la mia reale attrazione.
Passarono mesi prima di comprendere che, per ciò che volevo raccontare, era la persona giusta nel momento giusto. Ettore, infatti, stava attraversando un periodo cruciale della sua vita personale ed artistica. Era da tempo infatti che meditava ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui: lasciare la musica. Nonostante la sua giovane età, suonava da più di dodici anni, aveva già inciso quattro album e aveva fatto migliaia di concerti in tutta Italia; ma probabilmente tutto ciò non gli bastava. Da quel momento avrebbe fatto l’ultima manciata di concerti già organizzati e poi avrebbe comunicato a tutti la sua volontà. Rimasi attonito e stupito della sua posizione. Dopo qualche giorno ci ritrovammo per capire insieme quale strada percorrere con
il documentario; l’ipotesi di interrompere il film non era remota, ma la possibilità di rimodularlo, seppur più impegnativa, era ancora più stimolante.
Ettore si trovava nella fase della sua vita in cui stava cercando qualcosa d’altro: ed è stato proprio quel “qualcosa d’altro” che si è posizionato al centro dell’indagine del documentario.
Proprio in quel momento il libro di Gofmann è riemerso. In un passaggio il sociologo suggerisce: «Può essere vero che l’attività del retroscena può prendere spesso la forma di un consiglio di guerra, ma quando le due équipes si incontrano sul campo dell’interazione non sembra che si incontrino in regime di pace o di guerra. Si incontrano sulla base di una tregua temporanea, un consenso operativo, che ha lo scopo di permettere lo svolgimento delle attività volute», e in quel momento la strada da percorrere si è fatta più chiara: scandagliare il bisogno di rappresentare qualcosa che ci manca e che non possiamo vivere, e l’impossibilità di arrestare questo bisogno.
Seguendo le volontà, mia e sua, dovevamo seguirci e inseguirci, più di prima. Di lì a poco, infatti, saremmo entrati nel cuore delle riprese, e di conseguenza del film: dovevamo giocare con le nostre vite e con il documentario stesso. Da quel momento dovevamo sperimentare di più.
Il documentario ha cambiato forma: da una prospettiva osservativa, il punto di vista è diventato di forte partecipazione. Non solo appariva sullo schermo e davanti alle riprese, ma ha cominciato ad impossessarsi del documentario stesso: Ettore è diventato il documentario su di lui. Nella logica della rappresentazione documentaristica ci siamo spinti fino al suo punto più delicato: la messa in scena. Volevamo rappresentare le situazioni emotive dei suoi stati d’animo, facendole interpretare da lui stesso mantenendo però la credibilità.
Il documentario l’ho inteso fin da subito come un insieme di frammenti di vita eterogenei e disgiunti. Allontanandomi dalla logica di causa effetto ho voluto costruire la concatenazione dello sviluppo narrativo sulle trasformazioni emotive del protagonista.
Ettore Giuradei, cantautore classe 1981, lo conoscevo da anni.
Prima di iniziare il film avevo letto il libro di Erving Goffman La vita quotidiana come rappresentazione; è un saggio del 1956 definito di pre-sociologia; all’interno del libro come filo conduttore si usa la metafora del teatro per indagare l’importanza dell’azione umana e sociale. Ciò che mi ha colpito durante lettura, è stata la chiara e limpida dimostrazione del fatto che il “nostro” mondo è formato dalla “nostra” rappresentazione di noi stessi e vice versa.
In quel periodo ero alla ricerca di un’originale personalità che volesse giocare con me attraverso un documentario insolito sulla rappresentazione di se stessi, sfidando i paradossi esistenziali e le regole canoniche del documentario classico. Quando ho incontrato nuovamente Ettore sul palco, durante uno dei suoi concerti, ho capito che era lui la persona adatta per questa sfida personale a due; ero attratto dalla sua forza dirompente sul palco e dalla fragilità personale fuori. Volevo ambiziosamente costruire un documentario che attraverso il protagonista mettesse in discussione il documentario stesso, tentando una riflessione sul mezzo e sull’operazione linguistica.
All’epoca non avevo un’idea precisa di come intraprendere questo tortuoso percorso; da un lato mi sembrava di avere già il film in testa, e dall’altro non sapevo come iniziare. Feci quindi la cosa più semplice di fronte ad un musicista: cominciai a seguirlo durante i suoi concerti e i tour, proponendo ad Ettore un documentario su di lui e sulla sua musica. Ettore accettò, più per curiosità che per convinzione; del resto, era proprio questo tipo di complicità che cercavo. Da quel primo incontro nacquero delle riprese dei suoi concerti; successivamente iniziai a seguirlo anche a casa, durante la sua vita quotidiana. Durante quella fase, mentre raccoglievo le prime riprese, cercavo di mettere a fuoco consapevolmente ciò che avevo intravisto in lui e quale fosse la mia reale attrazione.
Passarono mesi prima di comprendere che, per ciò che volevo raccontare, era la persona giusta nel momento giusto. Ettore, infatti, stava attraversando un periodo cruciale della sua vita personale ed artistica. Era da tempo infatti che meditava ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui: lasciare la musica. Nonostante la sua giovane età, suonava da più di dodici anni, aveva già inciso quattro album e aveva fatto migliaia di concerti in tutta Italia; ma probabilmente tutto ciò non gli bastava. Da quel momento avrebbe fatto l’ultima manciata di concerti già organizzati e poi avrebbe comunicato a tutti la sua volontà. Rimasi attonito e stupito della sua posizione. Dopo qualche giorno ci ritrovammo per capire insieme quale strada percorrere con
il documentario; l’ipotesi di interrompere il film non era remota, ma la possibilità di rimodularlo, seppur più impegnativa, era ancora più stimolante.
Ettore si trovava nella fase della sua vita in cui stava cercando qualcosa d’altro: ed è stato proprio quel “qualcosa d’altro” che si è posizionato al centro dell’indagine del documentario.
Proprio in quel momento il libro di Gofmann è riemerso. In un passaggio il sociologo suggerisce: «Può essere vero che l’attività del retroscena può prendere spesso la forma di un consiglio di guerra, ma quando le due équipes si incontrano sul campo dell’interazione non sembra che si incontrino in regime di pace o di guerra. Si incontrano sulla base di una tregua temporanea, un consenso operativo, che ha lo scopo di permettere lo svolgimento delle attività volute», e in quel momento la strada da percorrere si è fatta più chiara: scandagliare il bisogno di rappresentare qualcosa che ci manca e che non possiamo vivere, e l’impossibilità di arrestare questo bisogno.
Seguendo le volontà, mia e sua, dovevamo seguirci e inseguirci, più di prima. Di lì a poco, infatti, saremmo entrati nel cuore delle riprese, e di conseguenza del film: dovevamo giocare con le nostre vite e con il documentario stesso. Da quel momento dovevamo sperimentare di più.
Il documentario ha cambiato forma: da una prospettiva osservativa, il punto di vista è diventato di forte partecipazione. Non solo appariva sullo schermo e davanti alle riprese, ma ha cominciato ad impossessarsi del documentario stesso: Ettore è diventato il documentario su di lui. Nella logica della rappresentazione documentaristica ci siamo spinti fino al suo punto più delicato: la messa in scena. Volevamo rappresentare le situazioni emotive dei suoi stati d’animo, facendole interpretare da lui stesso mantenendo però la credibilità.
LETTER OF INTENT AND DIRECTOR'S NOTES
I look at my documentary as a set of heterogeneous and disjointed fragments of life. Moving away from the logic of cause and effect, I wanted to construct the narrative following the emotional transformations of the protagonist.
Ettore Giuradei is a songwriter born in 1981, someone I had known for years.
Before starting the film, I read Erving Goffman’s book The Presentation of Self in Everyday Life; it is a 1956 essay defined as being pre- sociology; Goffman uses the metaphor of theater to investigate the importance of human and social action. What struck me was the clear demonstration that “our” world is shaped by “our” representation of ourselves and vice versa.
At that time, I was looking for an original personality who wanted to play with me through an unusual documentary about self-representation, challenging the existential paradoxes and rules of the classic documentary. When I met Ettore on stage during one of his concerts, I realized that he was the right person for this two-man challenge; I was attracted by his disruptive force on stage and by his personal fragility in his daily life. I had the ambition to build a film that, through the protagonist, challenged the idea of the documentary itself.
I didn’t know how to undertake this tortuous path; it seemed to me that I already had the film in mind, but I didn’t know how to start developing it. Therefore, I began to follow him during his concerts and tours, proposing to Ettore that he play in a documentary about him and his music. Ettore accepted, I think more out of curiosity than conviction.
I filmed his concerts, becoming a known and accepted presence, which allowed me to start following him at home during his daily life. While I was collecting the first shots, I consciously focused on what attracted me, on what I had glimpsed in him.
Months passed before I realized that he was the right person at the right time. Ettore was going through a crucial period in his personal and artistic life. For some time he had been meditating on something that no one would have ever expected from him: to stop playing music. Despite his young age, he had been playing for more than twelve years and he had already recorded four albums and performed at thousands of concerts throughout Italy; but for him, it was still not enough. He would have played the last handful of booked concerts and then announced his decision. I was astonished and amazed when he told me.
After a few days, we found ourselves together to understand what to do with the documentary. We discussed two possibilities: interrupting the film or reshaping it. The latter option was more demanding but also stimulating. Ettore opened up to me and told me he was looking for “something else” but he did not know what. It was this kind of complicity that I was looking for. And it was exactly that “something else” he was trying to identify to become the center of the documentary.
Goffman’s book resurfaced. In one passage the sociologist suggests: «It may be true that backstage activity often takes the form of a council of war; but when two teams meet on the field of interaction, it seems that they generally do not meet for peace or for war. They meet under a temporary truce, a working consensus, in order to get their business done». The road ahead became more clear: the focus of the film would have been the exploration of the need to represent something that is missing and cannot be experienced, as well as the inability to stop that need.
From that moment onward, we started experimenting. The documentary changed shape: from an observational perspective, the point of view became focused on participation. Ettore began to take possession of the documentary: he became the documentary about himself.
We have pushed ourselves to the most delicate point in documentary filmmaking: staging. We wanted to represent Ettore’s emotions and moods, having him interpreting himself. Ultimately, we wanted to combine authenticity with creation, giving a coherent feeling to the whole. The documentary acquired an organic structure, gravitating towards a fixed point, the body of Ettore, and a surprising and mysterious element, his mind. By investigating the thin line between the social role and the dramaturgical role, we wanted to discover something more about the self.
I look at my documentary as a set of heterogeneous and disjointed fragments of life. Moving away from the logic of cause and effect, I wanted to construct the narrative following the emotional transformations of the protagonist.
Ettore Giuradei is a songwriter born in 1981, someone I had known for years.
Before starting the film, I read Erving Goffman’s book The Presentation of Self in Everyday Life; it is a 1956 essay defined as being pre- sociology; Goffman uses the metaphor of theater to investigate the importance of human and social action. What struck me was the clear demonstration that “our” world is shaped by “our” representation of ourselves and vice versa.
At that time, I was looking for an original personality who wanted to play with me through an unusual documentary about self-representation, challenging the existential paradoxes and rules of the classic documentary. When I met Ettore on stage during one of his concerts, I realized that he was the right person for this two-man challenge; I was attracted by his disruptive force on stage and by his personal fragility in his daily life. I had the ambition to build a film that, through the protagonist, challenged the idea of the documentary itself.
I didn’t know how to undertake this tortuous path; it seemed to me that I already had the film in mind, but I didn’t know how to start developing it. Therefore, I began to follow him during his concerts and tours, proposing to Ettore that he play in a documentary about him and his music. Ettore accepted, I think more out of curiosity than conviction.
I filmed his concerts, becoming a known and accepted presence, which allowed me to start following him at home during his daily life. While I was collecting the first shots, I consciously focused on what attracted me, on what I had glimpsed in him.
Months passed before I realized that he was the right person at the right time. Ettore was going through a crucial period in his personal and artistic life. For some time he had been meditating on something that no one would have ever expected from him: to stop playing music. Despite his young age, he had been playing for more than twelve years and he had already recorded four albums and performed at thousands of concerts throughout Italy; but for him, it was still not enough. He would have played the last handful of booked concerts and then announced his decision. I was astonished and amazed when he told me.
After a few days, we found ourselves together to understand what to do with the documentary. We discussed two possibilities: interrupting the film or reshaping it. The latter option was more demanding but also stimulating. Ettore opened up to me and told me he was looking for “something else” but he did not know what. It was this kind of complicity that I was looking for. And it was exactly that “something else” he was trying to identify to become the center of the documentary.
Goffman’s book resurfaced. In one passage the sociologist suggests: «It may be true that backstage activity often takes the form of a council of war; but when two teams meet on the field of interaction, it seems that they generally do not meet for peace or for war. They meet under a temporary truce, a working consensus, in order to get their business done». The road ahead became more clear: the focus of the film would have been the exploration of the need to represent something that is missing and cannot be experienced, as well as the inability to stop that need.
From that moment onward, we started experimenting. The documentary changed shape: from an observational perspective, the point of view became focused on participation. Ettore began to take possession of the documentary: he became the documentary about himself.
We have pushed ourselves to the most delicate point in documentary filmmaking: staging. We wanted to represent Ettore’s emotions and moods, having him interpreting himself. Ultimately, we wanted to combine authenticity with creation, giving a coherent feeling to the whole. The documentary acquired an organic structure, gravitating towards a fixed point, the body of Ettore, and a surprising and mysterious element, his mind. By investigating the thin line between the social role and the dramaturgical role, we wanted to discover something more about the self.
BIO ETTORE GIURADEI
Ettore Giuradei, attore/cantautore, bresciano, classe 1981, dal 2000 al 2005 è attore della compagnia di teatro comico "TeatroDistratto" con la quale realizza lo spettacolo "CircoPolenta" presentato nei maggiori festival di strada italiani. Durante questo periodo approfondisce lo studio del teatro e della messinscena con Silvio Castiglioni, Pierre Bylan, Paolo Nani ed Eric de Bont. Nel frattempo inizia ad insegnare propedeutica teatrale nelle scuole elementari. Nel 2006 realizza con Michele Beltrami lo spettacolo comico surreale "Cabaret Godot". Nello stesso anno fonda, con Davide Danesi, l'etichetta discografca Mizar Records. Dal 2006 al 2010 incide e pubblica 3 dischi (Panciastorie, 2006, Mizar; Era che così, 2008, Mizar/Novunque; La repubblica del sole, 2010, Mizar/Novunque) accompagnati da tournée interminabili. Sempre nel 2006 vince il Premio per la nuova canzone d’autore italiana al MEI/Meeting Etichette Indipendenti di Faenza e nel 2008 viene invitato a partecipare al Premio Tenco e al Premio Ciampi. Suo fisso collaboratore il fratello Marco Giuradei, classe 1986, poli-strumentista e arrangiatore. Nel 2012 pubblica la favola "Il paese senza ringhiere, senza fabbriche e senza strade" con le illustrazioni di Nicola Ballarini e la produzione di chioscoMU. Nel 2013 esce l’album "Giuradei" per Picicca Dischi che ufficializza la collaborazione con il fratello Marco e con gli altri elementi della band: Domenico Vigliotti, fonico, e Alessandro Pedretti, batteria; a cui si aggiunge il nuovo chitarrista Nicola Panteghini. Dal 2006 ad oggi, il progetto ha visto la partecipazione e la prestigiosa collaborazione di diversi musicisti italiani e non, tra cui Danilo Di Prizio, Beppe Mondini, Accursio Montalbano, Domenico D’Amato, Bruno Bonarrigo, Gabriele Zamboni, Gionata Giardina, Giulio Corini, Enzo Albini, Giancarlo Onorato e Jairo Zavala. Da segnalare, sempre in questo periodo, l’ideazione e realizzazione di diversi videoclip, grazie, principalmente, alla collaborazione di Giacomo Triglia, videomaker e Nicola Ballarini illustratore. Nel 2014 incontra Andrea Grasselli, regista, che gli propone di realizzare un flm-documentario sulla sua esperienza musicale ed esistenziale. Dopo tre anni di riprese il film vedrà la luce nel 2017.
Ettore Giuradei, attore/cantautore, bresciano, classe 1981, dal 2000 al 2005 è attore della compagnia di teatro comico "TeatroDistratto" con la quale realizza lo spettacolo "CircoPolenta" presentato nei maggiori festival di strada italiani. Durante questo periodo approfondisce lo studio del teatro e della messinscena con Silvio Castiglioni, Pierre Bylan, Paolo Nani ed Eric de Bont. Nel frattempo inizia ad insegnare propedeutica teatrale nelle scuole elementari. Nel 2006 realizza con Michele Beltrami lo spettacolo comico surreale "Cabaret Godot". Nello stesso anno fonda, con Davide Danesi, l'etichetta discografca Mizar Records. Dal 2006 al 2010 incide e pubblica 3 dischi (Panciastorie, 2006, Mizar; Era che così, 2008, Mizar/Novunque; La repubblica del sole, 2010, Mizar/Novunque) accompagnati da tournée interminabili. Sempre nel 2006 vince il Premio per la nuova canzone d’autore italiana al MEI/Meeting Etichette Indipendenti di Faenza e nel 2008 viene invitato a partecipare al Premio Tenco e al Premio Ciampi. Suo fisso collaboratore il fratello Marco Giuradei, classe 1986, poli-strumentista e arrangiatore. Nel 2012 pubblica la favola "Il paese senza ringhiere, senza fabbriche e senza strade" con le illustrazioni di Nicola Ballarini e la produzione di chioscoMU. Nel 2013 esce l’album "Giuradei" per Picicca Dischi che ufficializza la collaborazione con il fratello Marco e con gli altri elementi della band: Domenico Vigliotti, fonico, e Alessandro Pedretti, batteria; a cui si aggiunge il nuovo chitarrista Nicola Panteghini. Dal 2006 ad oggi, il progetto ha visto la partecipazione e la prestigiosa collaborazione di diversi musicisti italiani e non, tra cui Danilo Di Prizio, Beppe Mondini, Accursio Montalbano, Domenico D’Amato, Bruno Bonarrigo, Gabriele Zamboni, Gionata Giardina, Giulio Corini, Enzo Albini, Giancarlo Onorato e Jairo Zavala. Da segnalare, sempre in questo periodo, l’ideazione e realizzazione di diversi videoclip, grazie, principalmente, alla collaborazione di Giacomo Triglia, videomaker e Nicola Ballarini illustratore. Nel 2014 incontra Andrea Grasselli, regista, che gli propone di realizzare un flm-documentario sulla sua esperienza musicale ed esistenziale. Dopo tre anni di riprese il film vedrà la luce nel 2017.
cast and credits
la nostalgia della condizione sconosciuta
genre | documentary film
year | 2019
duration | 73'
main character | Ettore Giuradei
characters | Renato Giuradei, Angelo Giuradei, Marco Giuradei, Alessandro Pedretti, Nicola Panteghini, Lorenzo Fantetti, Maria Novella Gennari, Davide Daffini, Giuseppe Passadori, Mario Rinaldi, Mila Portesi.
director | Andrea Grasselli
editor | Mauro Rodella
original compositions | Maurizio Rinaldi
screenwriters | Andrea Grasselli, Ettore Giuradei
director assistant | Giorgio Affanni
color correction | Alessio Zanardi, Gianluca Ceresoli
sound design and audio mix | Giovanni Corona
digital effects | Giorgio Poloni, Giulia Rosa
graphic design | Lorenzo Fantetti
camera | Andrea Grasselli, Ettore Giuradei, Davide Daffini, Emma Giuradei
subtitles | Alice Baini
digitizing Super8 images | Giulia Castelletti
social media manager | Marco Vinai
financial supports | Comune di Provaglio d’Iseo, Produzioni Dal Basso, Fondazione ASM
production | Cinqueesei & OmVideo
in collaboration with | Ass. Cult. Antiloco - il Piccolo Cinema
producers | Andrea Grasselli, Giorgio Affanni, Chiara Budano, Gianluca Ceresoli, Graziano Chiscuzzu, Pietro Comini, Mauro Rodella, Giorgio Poloni
genre | documentary film
year | 2019
duration | 73'
main character | Ettore Giuradei
characters | Renato Giuradei, Angelo Giuradei, Marco Giuradei, Alessandro Pedretti, Nicola Panteghini, Lorenzo Fantetti, Maria Novella Gennari, Davide Daffini, Giuseppe Passadori, Mario Rinaldi, Mila Portesi.
director | Andrea Grasselli
editor | Mauro Rodella
original compositions | Maurizio Rinaldi
screenwriters | Andrea Grasselli, Ettore Giuradei
director assistant | Giorgio Affanni
color correction | Alessio Zanardi, Gianluca Ceresoli
sound design and audio mix | Giovanni Corona
digital effects | Giorgio Poloni, Giulia Rosa
graphic design | Lorenzo Fantetti
camera | Andrea Grasselli, Ettore Giuradei, Davide Daffini, Emma Giuradei
subtitles | Alice Baini
digitizing Super8 images | Giulia Castelletti
social media manager | Marco Vinai
financial supports | Comune di Provaglio d’Iseo, Produzioni Dal Basso, Fondazione ASM
production | Cinqueesei & OmVideo
in collaboration with | Ass. Cult. Antiloco - il Piccolo Cinema
producers | Andrea Grasselli, Giorgio Affanni, Chiara Budano, Gianluca Ceresoli, Graziano Chiscuzzu, Pietro Comini, Mauro Rodella, Giorgio Poloni
nostalgia_dossier_ita_eng.pdf |